La Dea madre in Sardegna

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Ellera delle Rune
00domenica 20 marzo 2005 17:28
IL POZZO DI SANTA CRISTINA



Nei pressi di Oristano troviamo un sito di particolare interesse, il pozzo di santa cristina, detto pozzo nuragico o pozzo sacro,in sardegna di questi pozzi nuragici ve ne sono circa una quarantina , ma appunto , il piu’ rappresentativo e’ quello di santa cristina, che prende il nome da un a chiesata costruita li vicino.Esaminiamo il pozzo.Dalla scalinata centrale si accede all’omphalos…qui al centro si raccoglie l’acqua, acqua che secondo le popolazioni preistoriche aveva poteri terapeutici, sembra che la divinita’ delle popolazioni nuragiche dimorasse nell’acqua e sempre qui si svolgessero particolari cerimonie legate sempre all’acqua. La copertura del pozzo , detta a Tholos, e’ una falsa cupola con un foro sulla sommita’,che aveva varie funzioni…infatti ogni 18 anni e mezzo, cioe’ ogni anno lunare e quando la sua declinazione e’ massima, la luna va ad illuminare una presa luce



persona posizionata in una particolare nicchia del pozzo.Ma nn solo, infatti il pozzo era orientato in maniera particolare in modo che durante gli equinozi il sole illuminasse la scalinata e giungesse fino all’acqua. La funzione del pozzo nn e’ per nulla chiara, alcuni dicono che il pozzo sarebbe un luogo di culto delle acque, pero’ noi possiamo azzardare una ipotesi basata sugli studi sul culto della Luna o dea bianca e dove l’acqua e’ solo il "mezzo". Infatti si potrebbe ipotizzare il pozzo come luogo ove si potevano svolgere culti di fertilita’-purificazione, cioe’ la donna scendeva nel ventre della dea madre terra e li’, in abluzione, riceveva il principio celeste che, appunto ogni 18 anni e mezzo, si ricongiungeva con il principio femminile-terra.

Sicuramente ,dunque , il pozzo era un altro luogo di culto della religione unica, simbolo di unione tra il cielo e la terra e collegata, gia’ che cmq ci troviamo in un periodo abbastanza recente 2000-2500 a.C., al culto Lunare di cui gia’ si stavan perdendo le tracce per lasciar posto al culto unificato della terra-cielo, altro aspetto evoluzionistico del culto lunare..

Il rito che si effettuava in questi pozzi, dunque era molto simile a quello che avevamo identificato come Baphomet e di cui abbiamo parlato in altra sede!






[Modificato da Ellera delle Rune 20/03/2005 17.36]

Ellera delle Rune
00domenica 20 marzo 2005 17:30
Altro materiale sul culto della madre in Sardegna. A volte non importa andare troppo lontano...

Immagini di statuine sarde della Dea





Già che c'ero ho cercato del materiale sul culto della Madre in Sardegna.

Viaggio nella Sardegna madriarcale

Le origini del nostro matriarcato vanno ricercate in Sardegna, culla della più antica civiltà italiana. La crearono alcuni "popoli del mare" pelasgici provenienti dall'Asia, dall'area egeo-cretese, dal Tassili africano, dall'Iberia e dalla Celtia. Essi furono costretti ad emigrare dai vari epicentri territoriali per varie cause, ormai accertate dalle ricerche scientifiche e dalle rilevazioni satellitari: disastri naturali (tra cui il biblico diluvio universale, generato dall'onda d'urto di un asteroide che si abbattè sulla terra, il terremoto/maremoto che sconvolse l'area minoica, e la desertificazione sahariana) e le aggressioni delle prime orde patriarcali indoeuropee. Si tratta di quei mitici "giganti" (la parola viene dal greco e significa "figli della Madre Terra") che si dispersero nel Mediterraneo diffondendovi il culto della terra e delle acque, il megalitismo, la metallurgia e la cultura matrilineare."Due popoli, discendenti degli antichi giganti, vennero ad occupare in epoche diverse le regioni fertili, ospitali e ancora poco abitate della penisola italiana: i Sardi e poi gli Etruschi" (1). La grandezza (1900 km. di coste), la centralità e la difendibilità della Sardegna ne fecero in epoca post-diluviana un rifugio privilegiato. Dalla miscela etnica sarda si sviluppò una civiltà propulsiva, tutt'altro che chiusa: "dall'isola salparono navi che, per prime, crearono una rete di comunicazioni con la penisola, portandovi tecniche avanzate, arti, conoscenze e una visione magica e metafisica della vita" (2).

La civiltà matriarcale ha avuto in terra sarda uno sviluppo e una persistenza eccezionali, ancora scarsamente conosciuti. I ritrovamenti archeologici, relativamente recenti, ne hanno messa in evidenza la sorprendente dimensione soprattutto nel Neolitico e nell'Eneolitico (6.000 - 1.500 a.C). Tuttavia la sacralità del principio femminile si è conservata anche nei periodi successivi. Durante l'età fenicia si è intrecciata al culto della dea Tanit e, durante la colonizzazione punico-romana, al culto di Demetra/Cerere. Inoltre, malgrado le persecuzioni dell'integralismo cristiano, è stata tramandata fino alle soglie dell'età cosiddetta moderna da una magica rete di donni di fuora che, soprattutto nelle zone interne, hanno contribuito al fenomeno antropologico del "matriarcato barbaricino".

Ne ho ripercorso le tracce insieme a Petra Bialas, che da anni si ispira nelle sue ceramiche e sculture alle raffigurazioni delle dee pre-patriarcali; e che è stata una compagna ideale in un suggestivo viaggio-pellegrinaggio tra mare e monti, villaggi neolitici abbandonati, remoti santuari, musei, pozzi sacri, necropoli, nuraghi e luoghi carichi di energie psicofisiche (3). Queste tracce, del resto, non sono difficili da trovare: sono quasi ovunque, numerosissime e abbastanza intatte. I siti preistorici anteriori alla fase nuragica sinora scoperti sono oltre 120 e si condensano prevalentemente sul lato ovest e nel centro dell'isola, tranne quelli di Orgosolo, Oliena, Dorgali, Baunei e San Vito, ubicati a est. Sono caratterizzati dal megalitismo: dolmen, circoli di grandi pietre, betili e menhir con i seni, con dee graffite, con doppie spirali. Ma anche da insediamenti in superficie o necropoli ipogeiche scavati nella roccia calcarea: le domus de Janas, o "case delle fate". Esse variano dalle piccole domus isolate, simili aille cavità naturali dei "tafoni" scolpiti dal vento, alle decine di ambienti decorati delle necropoli di Su Crucifissu Mannu, S.Andrea Priu di Bonorva (III millennio a.C.), o Anghelu Ruju presso Alghero. I rilievi planimetrici degli ipogei mostrano che essi hanno una forma a utero, a uovo o a corpo di dea.

La parola Jana è comune in tutto il Mediterraneo; è la dea Jaune nei paesi Baschi, l'etrusca Uni, le romane Juno e Diana, la cretese Iune, la Ioni asiatica. In molte domus de Janas del V e IV millennio a.C., ma anche altrove, sono state trovate in grandi quantità statuine di divinità femminili in argilla, alabastro, calcarenite, caolinite, marmo, osso o arenaria quarzosa. Le più antiche sono quelle tondeggianti della cultura di Bonu Ighinu (Mara), di Su Cungiau de Marcu (Decimoputzu), Cuccurru S'Arriu (Cabras), Su Anzu (Narbolia) e Polu (Meana Sardo). La statuetta stetopigia di S'Adde (Macomer) è simile agli idoli ritrovati in Anatolia e nel nord Europa. Nella cultura di Ozieri del IV millennio a.C. le figure diventano piatte e stilizzate in forma di T, con la parte inferiore a cono. Tra le dee soprannominate "cicladiche" per la loro impressionante somiglianza con altre rinvenute nelle isole Cicladi, spicca la grande immagine della "Signora Bianca" di Turrigu, Senorbì. Suggestiva e poetica è la semplicità delle dee "a traforo", ricavate da sottili lastrine marmoree. Moltissime le dee con le braccia aperte a croce, fino alla minuscola dea-uccello di mezzo centimetro recuperata a Ploaghe, esposta nel Museo Sanna di Sassari dietro ad una grossa lente di ingrandimento. Le affinità con analoghi reperti in altri luoghi distanti migliaia di chilometri dimostrano che la cultura matriarcale era basata su un linguaggio omogeneo diffuso in tutto il mondo, come ha affermato l'archeologa Marija Gimbutas (4).

La manifattura di queste dee prosegue per tutta l'età del rame, su preziose lamine dorate. E continuerà nell'espressione simbolica, sia pure de-contestualizzata, attraverso i secoli. In filo diretto con il Neolitico, esistono ancora oggi persone, in Barbagia, che mettono nella bara dei congiunti morti sa pipiedda o sa pizzinedda, una piccola dea confezionata con la tela bianca o con la cera. Oppure, anche in altre zone, è abituale l'usanza di intrecciare con striscioline di foglie di palma sa mura, ovvero la Moira, la dea che decreta il destino, per regalarla durante la Domenica delle Palme.

Il culto della Grande Madre è protagonista anche in un singolare episodio del megalitismo sardo: il santuario preistorico di Monte d'Accoddi presso Porto Torres (2.700 a.C.), una piramide a ziggurath che avvalora in modo inequivocabile l'ipotesi della matrice etnica orientale. Altri sorprendenti risultati della "strana barbarie sarda" (Deledda) sono le Tombe dei Giganti, costruite con enormi lastre di pietra disposte a semicerchio secondo un preciso schema di riferimento astronomico, e collegate con un lungo corpo a galleria retrostante. Bio-architetture con un isolamento a intercapedine, erano orientate verso la Croce del Sud (allora visibile anche dall'emisfero boreale) ed erette in corrispondenza di falde acquifere e di forti flussi magnetici; la stele verticale d'ingresso è conficcata nel punto di maggiore potenza. Venivano utilizzate a scopo terapeutico con il procedimento dell'incubazione: chi era afflitto da epilessia, disturbi del sistema nervoso e traumi psichici vi dormiva per cinque giorni e guariva con una vera e propria cura del sonno, indotto dalle sacerdotesse con particolari sostanze soporifere e con sistemi ipnotici.

Affascinanti produzioni dell'architettura megalitica sono i pozzi sacri, come quello di Santa Cristina a Paulilatino (Oristano) del primo millennio avanti Cristo, tagliato con inaudita precisione nella pietra basaltica. Si entra in contatto con il potere taumaturgico delle acque sotterranee scendendo una scala triangolare di 25 gradini che porta al pozzo circolare. Qui una camera alta 7 metri è sovrastata da un oculo attraverso il quale la luce della luna magnetizza lo specchio d'acqua. Ogni 18 anni e sei mesi (l'ultima volta il 24 dicembre 1988) la luna scende esattamente in perpendicolare nel suo tempio; ma vi torna in modo meno evidente ogni anno durante il plenilunio invernale, rendendo così possibile la misurazione del mese lunare. Il triangolo dell'ingresso è circondato da un recinto interno a forma di toppa di chiave (un triangolo accostato a un cerchio, che è anche il simbolo della dea Tanit), e da un altro recinto esterno ellittico. Si tratta di un organismo a stretto contatto con la natura, concepito come un orologio solare e lunare insieme, che segnalava i solstizi e gli equinozi mediante la scala e l'oculo del pozzo. Ai margini di esso, sono ubicate capanne circolari abitabili e un grande ambiente collettivo di riunione a cerchio, con una panca continua per sedersi addossata alle pareti di pietre incastrate a secco.



Il pozzo Sacro di San Cristina.



Particolare dell'ingresso



I nuraghi sono una presenza costante nel panorama sardo. Ne sono stati inventariati oltre settemila, costruiti dal 1.800 al 500 a.C. Probabilmente il loro nome deriva dall'antico sumeronur-aghs, fiamma ardente: sulle loro sommità si accendeva il fuoco per fini rituali, ma anche a scopo di segnalazione. Da ogni nuraghe se ne vedevano almeno altri due, il che assicurava una efficacissima rete di comunicazione visiva e sonora, basata sulla triplicità. Alcuni, come quelli del complesso Su Nuraxi di Barumini (1.500 a.C.), sono integrati da un pozzo e circondati da abitazioni circolari. Prima di diventare le fortezze dei guerrieri Shardana, furono i templi astronomici di popolazioni pacifiche: nel solstizio d'estate il sole illumina la cella interna formando un potente cerchio di luce. La loro imponente struttura, a camere sovrapposte o laterali, accentrava energie magnetiche dal sottosuolo, ed era anch'essa un luogo di pratiche sacre e terapeutiche. Presso i nuraghi ci si riuniva, si giurava, si facevano oracoli, si celebrava la luna e si dormiva per curarsi, come nelle Tombe dei Giganti. E nei villaggi nuragici, come quello di Serra Orrios con le sue settanta capanne, la presenza sacrale dell'acqua, insieme all'energia del fuoco, è una costante. A Barumini una donna ci ha raccontato una curiosa leggenda riguardante Eleonora d'Arborea, la sovrana legislatrice che nel 1392 compilò la Carta de Logu (un codice di giustizia che, tra l'altro, prevedeva sanzioni durissime per gli stupratori). Sembra che Eleonora, percorrendo un passaggio segreto sotterraneo, si recasse spesso nell'antica zona sacra di Su Nuraxi, che allora era interamente nascosta dalla terra, e dove si svolgeva la trebbiatura del grano.

I fenici arrivarono sulle coste sarde intorno al 1.000 a.C. e si stabilirono soprattutto lungo il versante occidentale. Fondarono i loro primi insediamenti permanenti (Cagliari, Nora, Sulci, Tharros, Bithia) tra la fine del IX e l'VIII secolo a.C., e in seguito si integrarono nella colonizzazione cartaginese (510 a.C.). Alla Tanit fenicia, la "nutrix", erano dedicati i "tophet", siti a cielo aperto recintati con muretti dove si seppellivano i bambini nati morti oppure deceduti entro sei mesi dalla nascita, insieme a piccoli animali. Sono luoghi commoventi, che i Romani invasori, e conquistatori dal 238 a.C. al 476 d.C., cercarono di infangare nello stesso modo in cui screditarono i druidi celtici, cioè inventando la menzogna di sanguinosi sacrifici infantili alla dea - smentita dalla presenza di embrioni. Nel "tophet" di Monte Sirai presso Carbonia (IV-II sec. a.C.), sono affiorate stele di dee che stringono al petto un fiore di loto, e un'altra con Tanit-Astarte che indossa la maschera contro gli spiriti maligni e il tamburello per le danze funebri; un motivo che si ritrova anche in parecchie statuine bruciaincensi di piccole dimensioni. A Nora venne costruito un grande tempio di Tanit (IV-II secolo a.C.). Ma il ritrovamento forse più singolare della fase fenicio-punica è quello del santuario di Bithia (Domusolemaria): decine di figurine votive in argilla che indicano la parte del corpo malata, plasmate durante l'ipnosi terapeutica indotta dalle bithiae (letteralmente: donne con le pupille doppie), le sacerdotesse-sciamane del tempio.

Infine risalgono all'epoca romana - che costruisce radi insediamenti sparsi su tutta l'isola, in funzione di controllo - numerose statuine di Demetra/Cerere a schema cruciforme, oppure con fiaccola e porcellino. Sono generalmente bruciaincensi in argilla, prodotti con un'iconografia molto simile sin dalla fase punica (di cultura greca), dal 500 a.C. al 100 a.C. (5).

Le tradizioni sarde e le sue leggende, che furono studiate con attenzione dalla grande scrittrice Grazia Deledda, sono strettamente legate alle radici matriarcali. Gioca in esse un ruolo fondamentale lo sciamanesimo femminile risalente al periodo neolitico. Fino alla prima metà del Novecento, le deinas continuarono ad essere "veggenti stimate e temute allo stesso tempo" (6). Chiamate anche videmortos per la loro capacità di comunicare con i defunti, si iscrivono nella genealogia delle janas , le sacerdotesse che non potevano appartenere ai comuni mortali, ma solo a se stesse. Si racconta che quando las fadas (le fate) del Monte Oe scendevano a mezzanotte a ballare nella piazza del paese, se qualche uomo cercava di toccarle veniva schiacciato da una maledizione: Ancu ti tocchet sa musca maghedda! ("Che tu sia punto dalla mosca maghedda!", un insetto letale). Il loro corredo magico comprendeva lo specchio, il setaccio o vaglio, il velo, gli arnesi da tessitura; e naturalmente le erbe, gli unguenti e le sostanze che favorivano la trance, tra cui il giusquiamo, la belladonna, la datura, l'olio di ginepro, l' Orrosa 'e cogas (Rosa delle streghe), la peonia e il fungo Amanita muscaria (in dialetto, "allucinato" si dice tuttora muscau). I loro poteri erano il dominio del fuoco, il contatto con gli spiriti, l'oracolo, la capacità di visione a distanza e di guarigione, l'estasi e la trance (andare in calazonis), il volo magico. Queste pratiche, esercitate apertamente ancora nei primi secoli del cristianesimo, non cessarono mai del tutto e sopravvissero sotterraneamente anche ai 767 processi intentati dell'Inquisizione tra il 1562 e il 1688, l'80% dei quali riguardavano "fattucchiere e sortileghe". Le più perseguitate furono le streghe di Castel Aragonese (oggi Castelsardo); gli inquisitori individuarono come luogo del sabba la misteriosa località della piana del Coghinas, dove attualmente si trovano le terme di Casteldoria.

Alla repressione cristiana resistè tenacemente anche l'antichissimo culto lunare di Diana, di cui si trovano vistose tracce nella toponomastica dell'isola (Lunamatrona, Nuraghe Luna, Cala Luna, Monte Luna, Monte Diana, etc.). Nel mondo romano Diana Lucina fu ufficialmente onorata fino al IV secolo dopo Cristo con la solenne processione notturna del 13 agosto, fatta da donne che tenevano in mano una torcia. Durante il medioevo, la venerazione della dea venne ripetutamente investita dagli anatemi della chiesa e demonizzata. Ma Artemide-Diana, in realtà, era una figura protettrice: "puniva coloro che violentavano le vergini e si macchiavano di ogni altra sopraffazione, così come puniva coloro che esercitavano la caccia in modo selvaggio, effettuando una distruzione senza limiti. Anche i cuccioli, al pari dei bambini, erano sotto la sua protezione e dovevano essere risparmiati" (7). La dea assisteva le partorienti e le balie, presiedeva alla crescita di ogni genere. Veniva invocata fino a una cinquantina di anni fa in filastrocche che si ripetevano quasi invariate in numerosi paesi della Sardegna centrale. Le ragazze le recitavano sedute in cerchio e battendo le mani, oppure in girotondo ad occhi chiusi, dopo aver guardato la luna: Luna luna, paraluna, paristella / ses sa bella de muntanna... Luna luna, porchedda luna / porchedda ispana, sette funtanas / sette chilivros, appiccamilos / sutta sa mesa, luna Teresa, / Teresa luna, dammi fortuna. E tuttora, nella Bassa Gallura, si saluta la luna nuova con l'esclamazione: Luna miraculosa, dammi la grazia di l'anima.

Tra le donni di fuora che appartengono alle leggende popolari c'è la gioviana, un genio tutelare femminile che si presenta nelle case la notte del giovedì quando le donne si attardano a filare, per aiutarle; la vampiresca coga o sùrbile, frutto della criminalizzazione cristiana, ma percepita anche come una Nemesi che impone la giustizia; le panas o pantamas, spiriti di donne morte di parto che durante la notte si recano lungo i corsi d'acqua; la Saggia Sibilla che abita con altre janas nella grotta del Carmelo presso Ozieri, e alla quale la tradizione orale attribuisce il segreto della lievitazione del pane e l'invenzione dei fermenti lattici; le fadas che vivono nei nuraghi e tessono la buona e la cattiva sorte con un telaio d'oro (8). Ma, al di là dei racconti leggendari, le ultime depositarie di un sapere antichissimo hanno costituito sino a pochi decenni fa una presenza e una realtà molto diffusa tra la popolazione sarda. Non accettavano denaro, solo prodotti in natura. Abili erboriste, le orassionarjas guarivano anche con formule magiche dette verbos e usavano tre grani di sale per scacciare il malocchio. Le anziane accabadòras (dal fenicio "hacab", mettere fine) accompagnavano nel trapasso della morte e abbreviavano le dolorose agonie, oppure dopo le esequie si recavano al cimitero per "chiudere la casa", girando tre volte la punta di una grossa chiave sulla tomba. Tre donne (una giovanissima, una matura e una vecchia) svolgevano insieme un rituale terapeutico contro le febbri perniciose recandosi ad un trivio, togliendosi una pianella e tracciando a terra con essa cerchi e croci. E anche attualmente esistono deinas che praticano la cosiddetta "medicina dello spavento" a chi è oppresso da incubi o ossessioni, oppure adottano la gestualità lustrale dell'acqua gettata dietro le spalle.

Passata dagli antichi splendori ad un destino di "eterna colonia" sfruttata e maltrattata, la Sardegna ha mantenuto il suo profumo, emanato coralmente dalla vegetazione dell'isola che ancora sopravvive alla criminale violenza degli incendi, e pazientemente si ricrea: mirto, cisto, tamerici, zafferano, euforbia, fiordaliso spinoso, fichi d'india, peonie selvagge, gigli di sabbia, rosmarino, fillirea, ginepro, oleandro, boschi di querce da sughero, lentischi, eucalipti, pini, corbezzoli, ulivi e olivastri. Non sono svanite neanche la fierezza e la forza delle donne che la abitano, così come non sono state cancellate nel quotidiano contemporaneo le immagini delle dee, ancora riprodotte con naturalezza e orgoglio nelle manifatture di oreficeria o sull'etichetta di un vino. Non a caso, in questa regione le cooperative femminili in qualsiasi settore sono una realtà diffusissima e abituale: la presenza degli uomini nel lavoro, mi ha spiegato concisamente una ragazza con un fermo sguardo da jana, non è indispensabile.


Ellera delle Rune
00domenica 20 marzo 2005 18:18
Il culto della Madre terra e del Dio della caccia, sono la prima forma di religione esistita in tutte le parti del mondo. In alcune zone poi è sopravissuta di piu' o meno...ma è stat dovunque. Cercando si trova la sua presenza d'ovunque. Almeno io la credo così.
°angharad°
00domenica 24 luglio 2005 15:32
Ho trovato altro materiale sul culto della Madre in Sardegna, anche se non è molto...

COMPLESSO MEGALITICO DI PRANU MUTTEDDU-GONI (CAGLIARI)

Tombe a circolo

Le tombe a circolo ospitavano le ossa dei defunti nella cella cubica di dura pietra arenaria. Le ossa venivano composte nella cella dopo il rito della scarnificazione. Nelle notti di sgomento per la battaglia imminente, nelle albe dei solstizi e dei riti propiziatori, quando più grande era l'attesa, per timore o per gioia, le genti di Pranu Mutteddu danzavano nei circoli sacri bruciando essenze, cinti di mirto, tatuati di simboli astrali con succhi di bacche.
Morte e vita in un unico cerchio.

Pranu Mutteddu non era solo luogo per sepolture illustri. L'Altopiano del Mirto era infatti consacrato alla Dea Madre, da cui discendeva ogni cosa e ogni vivente. Il suo respiro divino governava la Terra, i raccolti e le alterne stagioni e si esprimeva altissimo nell'operato dei grandi uomini sepolti a Pranu Mutteddu. Lungo i percorsi sacri dell'altopiano, delimitati dai Menhir e dai Circoli di pietra, le tribù neolitiche celebravano la Dea Madre e il suo sposo Dio Toro, altra e minore divinità del duale olimpo neolitico. La simbologia utilizzata per rappresentare l'energia cosmica della Dea Madre ci è stata rivelata dai decori incisi sul vasellame dei corredi funerari ritrovati nelle Tombe a circolo e nelle Domus de Janas di Pranu Mutteddu: spirali, triangoli, occhi, zig-zag, figure stilizzate maschili e femminili ornano tutte le terrecotte databili tra il 3000 e il 2500 a.C. Gli stessi simboli venivano sicuramente dipinti, utilizzando succhi di bacche e di radici o il sangue degli animali sacrificati, sui corpi degli officianti i riti, che erano con ragionevole certezza i personaggi più in vista della tribù- sciamani e guerrieri. E' legittimo ritenere che i riti più complessi si svolgessero in occasione di particolari allineamenti astrali, i nostri attuali Solstizi d'Inverno e d'Estate, che segnavano scadenze importanti per le colture agricole e per tutte le altre attività delle comunità di agricoltori e pastori stabilmente insediate nel Neolitico nell'attuale territorio del Comune di Goni.

QUI' potete trovare la pagina dalla quale ho preso le informazioni, ed è visibile anche il complesso megalitico in questione.
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