chiara partenza

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paper.
00venerdì 10 ottobre 2008 23:41
Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava le morbide soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
mi era venuta l'idea di un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto carino a cui mi legava il ricordo esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio della sua visita inaspettata - ma dopo, a un certo punto, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti incisi nella memorie delle mi cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.


(segue)

@Mimmi the Maneater@
00lunedì 13 ottobre 2008 11:46
Mi piaceva la prima stesura [SM=g8007]
paper.
00lunedì 13 ottobre 2008 12:17
Re:
@Mimmi the Maneater@, 13/10/2008 11.46:

Mi piaceva la prima stesura [SM=g8007]





te pareva... [SM=g11327]

tuttavia tranquilla, sono tutte prime stesure


[SM=g11472]

@Mimmi the Maneater@
00lunedì 13 ottobre 2008 12:30
Re: Re:
paper., 13/10/2008 12.17:





te pareva... [SM=g11327]

tuttavia tranquilla, sono tutte prime stesure


[SM=g11472]





[SM=g8106]
francesca.38
00lunedì 13 ottobre 2008 12:51
Re: Re:
paper., 13/10/2008 12.17:





te pareva... [SM=g11327]

tuttavia tranquilla, sono tutte prime stesure


[SM=g11472]





ma perchè hai cancellato l'altra?

paper.
00lunedì 13 ottobre 2008 13:04
Re: Re: Re:
francesca.38, 13/10/2008 12.51:




ma perchè hai cancellato l'altra?





perchè, come si sa, ho il vezzo del cancelliere... [SM=g8360]


@Mimmi the Maneater@
00lunedì 13 ottobre 2008 15:14
Re: Re: Re: Re:
paper., 13/10/2008 13.04:




perchè, come si sa, ho il vezzo del cancelliere... [SM=g8360]






[SM=g11859]
chiaralapazza
00lunedì 13 ottobre 2008 18:50
Sento l'esigenza di leggerlo tutto.
(F@bry)
00giovedì 16 ottobre 2008 08:39
paper,non seguirò la tua vocazione musicale perchè va al di là di quello che ascolto,ma per quanto riguarda i tuoi scritti sei come una calamita,attiri,e ti seguo....eccome se ti seguo...e aspetto sempre che tu scriva cose nuove [SM=g8914]
paper.
00giovedì 16 ottobre 2008 09:29
Re:
(F@bry), 16/10/2008 8.39:

paper,non seguirò la tua vocazione musicale perchè va al di là di quello che ascolto,ma per quanto riguarda i tuoi scritti sei come una calamita,attiri,e ti seguo....eccome se ti seguo...e aspetto sempre che tu scriva cose nuove [SM=g8914]




troppo gentile e cara
se riuscirò a presentare Ege ti voglio presente. ancona città credo che sia comoda per tutti
@Mimmi the Maneater@
00giovedì 16 ottobre 2008 15:14
Re:
paper., 10/10/2008 23.41:

Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava le morbide soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.




Mi piace!
Un'unica annotazione abbreverei morbide soft machine a soft machine, tanto morbide e soft è la stessa cosa.
Attento alle lettere dimenticate qua e là.
chiaralapazza
00giovedì 16 ottobre 2008 18:41
[SM=g8171]
paper.
00domenica 26 ottobre 2008 10:10
Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci rivevette con indifferende seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che si saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. vedevo Al di fronte a me che rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza doveva avere raggiunto profondità impensabili.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si senti assolutamente compreso da lui


(segue)
chiaralapazza
00domenica 26 ottobre 2008 17:24
C'è un periodo a mio vedere un pò troppo lungo.
Mi piace sempre di più! [SM=g8171]
(F@bry)
00domenica 26 ottobre 2008 21:52
Il periodo lungo,è il fatto che per continuare a leggere altro bisogna attendere [SM=g8043] si vorrebbe leggere tutto di continuo [SM=g10715]

[SM=x1677346] [SM=g8914]
paper.
00venerdì 31 ottobre 2008 12:09
Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.



(segue)
chiaralapazza
00venerdì 31 ottobre 2008 15:54
Paper, cos'è il fricò?
paper.
00venerdì 31 ottobre 2008 17:44
piatto umbro a base di pollo
paper.
00sabato 1 novembre 2008 11:19
chiara partenza

Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. all'altro capo del tavolo Al mi apparve indifeso e bambino, i capelli svigoriti e scuriti, il viso smunto. rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza aveva raggiunto profondità degne di nota.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si sentì assolutamente compreso da lui



(segue)
paper.
00sabato 1 novembre 2008 21:44
cambiato il titolo
paolarolly
00sabato 1 novembre 2008 22:15
Molto bello! Mi piace.

[SM=g7372]
(F@bry)
00sabato 1 novembre 2008 22:23
Scrive in modo divino,lo vorresti leggere tutto d'un fiato [SM=g8043] speriamo riscriva presto il seguito
paolarolly
00sabato 1 novembre 2008 22:30
Re:
(F@bry), 01/11/2008 22.23:

Scrive in modo divino,lo vorresti leggere tutto d'un fiato [SM=g8043] speriamo riscriva presto il seguito




Guarda Fabry, te lo dico senza tema di rivelare un segreto: G.M. (nick Paper) era un grande scrittore (non certo un grande cantante, come qualcuno - secondo me per prenderlo in giro - ha affermato), uno a cui 2 personaggi culturalmente ragguardevoli avevano predetto un futuro stellare. E aveva anche cominciato benino. Poi penso avrete intuito che cosa è successo, che cosa ha buttato via. Ma il talento ce l'ha tuttora. Io l'ho sempre saputo. Lui vi vuole molto bene, siete gli unici amici a cui continui a scrivere. Penso proprio che ci ripagherà tutti quanti!
[SM=g9438]

(F@bry)
00sabato 1 novembre 2008 23:51
me lo auguro paola,perchè un talento simile non può e non deve rimanere celato
|Denilson|
00domenica 2 novembre 2008 01:49
domani (oggi) mi prendo tutto il tempo per una attenta lettura.
francesca.38
00martedì 4 novembre 2008 11:16


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Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutisi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficiale.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava le morbide soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei fusti.

...

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.
la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.

...





ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti incisi nella memorie delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



ravvedutosi è singolare, credo

come credo non sia corretto esteriore usato così. sottintendi aspetto, immagino, ma non suona bene. espliciterei la frase o userei un aparola diversa

ufficiale e mie sono semplici errori di battitira

non usare le virgolette. te l'ho già detto, te lo ridico. insisto. sono infantili

la frase in corsivo mi sembra che potrebbe essere resa più fluida...

fitta, non so, è necessaria una parola così particolare?


in generale, preferisco il finale, dove le emozioni alleggeriscono la tua scrittura

@Mimmi the Maneater@
00martedì 4 novembre 2008 11:21
Fra, son tutti errori di distrazione e ve ne son altri.
Niente di grave.
paper.
00martedì 4 novembre 2008 13:09
chiara partenza (romanzo in 10 improvvisazioni)


Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. all'altro capo del tavolo Al mi apparve indifeso e bambino, i capelli svigoriti e scuriti, il viso smunto. rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza aveva raggiunto profondità degne di nota.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si sentì assolutamente compreso da lui quando gli raccontò della pena indicibile che aveva letto negli occhi di suo padre nel momento in cui costui si era finalmente rassegnato alla inesorabilità del percorso senimentale del figlio.

il suo compagno di ventura, che detto di passata aveva scoperto la sua omosessualità dopo un matrimonio, un figlio e svariate amanti,
ebbe a dirgli che capiva suo padre e che se si fosse trovato al posto suo l'avrebbe tranquillamente ammazzato. ma nonostante la patente insensatezza di tali parole, Al ne aveva saputo cogliere il lato consolatorio: inesistente ma agognato.

ma il suo tipo era senz'altro un tipo scolpito nella roccia o, se si vuole, un losco figuro.
perchè, quando quelle truffe da commedia all'italiana (amavano spacciarsi per sovraintendenti ai beni culturali e bazzicare le segreterie degli atenei, le quali nel farsi buggerare dimostravano ogni volta una spiccatisssima mancanza del senso del ridicolo) furono smascherate nonostante la mediocrità di un tabaccoso e dialettale ispettore di polizia della provincia ferrarese e l'imputazione di truffa aggravata e reiterata fu formalizzata - il tipo pensò bene di addossare sul compagno ogni responsabilità, certo che questi, nel segno della sua devozione, se ne sarebbe fatto carico in modo assoluto nonchè amorevole.
il che accadde puntualmente.
paper.
00martedì 4 novembre 2008 13:19
come avrete notato, miei attenti, cari e impagabili lettori, ho aggiunto un sottotitolo alla mia composizione. in realtà avevo previsto di aggiungerlo alla fine, oltre ad altre cosette che seguiranno certamente, come le dediche, la colonna sonora ed altro ancora.
anticipo un po' le cose per ribadire una volta di più che questa composizione è appunto sostanzialmente un'improvvisazione in varie fasi (il 10 del titolo è solo figurativo, in realtà saranno un po' di più tali fasi)

scrivo sulla memoria. per come sono fatto mi è difficile inventare persino il colore di una veranda. ma di preparato non c'era nulla, e scrivendo sul forum non trascrivo: scrivo proprio e in presa ultra-diretta.

non è esibizionismo il mio, ma è una necessità legata al mio discorso narrativo.

grazie ancora
chiaralapazza
00martedì 4 novembre 2008 17:34
Re:
paper., 04/11/2008 13.19:

come avrete notato, miei attenti, cari e impagabili lettori, ho aggiunto un sottotitolo alla mia composizione. in realtà avevo previsto di aggiungerlo alla fine, oltre ad altre cosette che seguiranno certamente, come le dediche, la colonna sonora ed altro ancora.
anticipo un po' le cose per ribadire una volta di più che questa composizione è appunto sostanzialmente un'improvvisazione in varie fasi (il 10 del titolo è solo figurativo, in realtà saranno un po' di più tali fasi)

scrivo sulla memoria. per come sono fatto mi è difficile inventare persino il colore di una veranda. ma di preparato non c'era nulla, e scrivendo sul forum non trascrivo: scrivo proprio e in presa ultra-diretta.

non è esibizionismo il mio, ma è una necessità legata al mio discorso narrativo.

grazie ancora




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