V. Quanto alla prima, la contemplazione, la prova della sua validità sta già nel fatto stesso che in ciascuno di noi è insito il desiderio di conoscere l'ignoto e vivo l'interesse per ciò che di lui si racconta. C'è chi si mette in mare e sopporta i fastidi di un lunghissimo viaggio per il solo ed unico premio che può derivargli dallo scoprire cose sconosciute e lontane: è questo che attira le folle agli spettacoli, che c'induce a spiare attraverso le fessure ciò ch'è precluso al nostro sguardo, ad esplorare i più profondi segreti, a consultare i libri antichi o ad apprendere i costumi di popoli stranieri. Questa curiosità ce l'ha data la natura, la quale, conscia della propria arte e del suo fascino, ci ha creati quali testimoni di un così stupendo spettacolo. Quale scopo, quale utilità avrebbe avuto la sua opera se cose tanto grandi e meravigliose, così accuratamente rifinite, così eleganti e splendide di mille e più bellezze le avesse sciorinate davanti ad un deserto? Ma non ci ha fatti soltanto testimoni e spettatori passivi delle sue bellezze esteriori, essa vuole essere anche esaminata, scrutata, e a conferma di ciò basta considerare il luogo che ci ha assegnato: ci ha posti proprio nel suo centro, dandoci così la facoltà di vedere tutto ciò che ci circonda; e non solo ha dato all'uomo una posizione eretta, ma gli ha messo il capo in alto e sopra un collo snodabile, affinché possa osservarla più facilmente, seguire il rotante corso degli astri, dal loro sorgere al loro tramonto, e accompagnare il suo sguardo al movimento dell'intero universo. Poi, col far procedere le costellazioni, sei di giorno e sei di notte, gli ha spiegato davanti ogni parte di sé, in modo che, per mezzo delle cose visibili che cadono sotto i suoi occhi, nasca in lui il desiderio di conoscere anche il resto. Noi, infatti, vediamo solo una parte delle cose, e molte, per di più, neppure nella loro grandezza reale, ma il nostro sguardo, acuto com'è, si apre la strada alla ricerca, avviandosi verso la verità, per cui la nostra indagine si sposta dalle cose visibili a quelle invisibili, sino a tentare la scoperta di una realtà ancora più antica del mondo stesso…
[…] Vive dunque secondo natura chi si dedica completamente a lei, per contemlarla e venerarla. Ma la stessa natura vuole anche che ci si dedichi all'azione, sicchè possiamo fare entrambe le cose e così faccio io, tanto più che pure la contemplazione è, in definitiva, un'azione.
VII. […] sono tre i generi di vita fra cui si discute quale sia il migliore: il primo si prefigge il piacere, il secondo la contemplazione, il terzo l'azione. Per prima cosa - messe da parte la polemica e l'implacabile avversione che mostriamo sempre nei confronti di chi segue una dottrina diversa dalla nostra - vediamo se questi tre generi, anche se sotto aspetti diversi, giungano alla stessa conclusione. Tanto per cominciare, il piacere non esclude la contemplazione, come la contemplazione non esclude il piacere, e l'azione, a sua volta, comprende pure la contemplazione. "Però i fini sono diversi", mi obietterai. D'accordo, ed è anche notevole la loro differenza, però il fine e l'elemento accessorio che caratterizza i tre generi di vita sono strettamente legati fra loro: il contemplativo non può contemplare senza essere contemporaneamente attivo, l'attivo, a sua volta, non può agire senza contemplare l'oggetto del suo agire, e il gaudente, che tutti concordemente giudichiamo male, non cerca un piacere inerte, cerca un piacere attivo e duraturo, che solo per via della razionalità può rendere tale, fissandolo dentro di sé in una continua contemplazione. Vista così, anche la scuola del piacere rientra nella vita attiva. E come potrebbe non rientrarvi, quando lo stesso Epicuro sostiene di essere pronto a rinunciare al piacere, e a cercare anzi il dolore, se il piacere fosse soltanto minacciato dal rimorso, o a scegliere il minore fra due mali? Dove voglio arrivare con questo discorso? A dimostrare, chiaramente, che la contemplazione piace a tutti, con la differenza che altri vi aspirano come ad una meta finale senza ritorno, per noi invece è solo uno scalo, non un porto definitivo.
VIII. Andando avanti dirò che secondo i principi di Crisippo la vita contemplativa è più che legittima, quando però derivi da una nostra libera scelta e non dall'adesione passiva ad uno stato d'inattività. Gli stoici dicono che il saggio non parteciperà alla vita dello Stato quale che esso sia: se questo avvenga perché lo Stato manca al saggio o perché il saggio manca allo Stato cosa importa, quando lo Stato, prima o poi, viene a mancare a tutti? E mancherà sempre, a chi pretende troppo da lui. Ora io mi chiedo a quale tipo di Stato potrebbe accedere il saggio: a quello ateniese, che mandò a morte Socrate e costrinse Aristotele a scappare per non fare la stessa fine? Uno Stato in cui l'invidia strozza ogni virtù? È evidente che il saggio non darà mai la sua opera ad un regime siffatto. E allora? Si accosterà a quello cartaginese, dove la guerra civile non ha un minuto di tregua, dove la libertà è rovinosa ai migliori ed onestà e giustizia sono tenute a vile, dove contro i nemici si consuma una crudeltà disumana e i cittadini stessi sono guardati di traverso, come persone pericolose? Anche da questo tipo di Stato il saggio si guarderà. E se li passassi in rassegna uno per uno non ne troverei nessuno capace di sopportare il saggio, o viceversa. E allora? Se quello Stato ideale, che pur ci raffiguriamo nella nostra mente. non si trova da nessuna parte, ecco che la vita contemplativa s'impone a tutti come una necessità, essa è la nostra ancora di salvezza, dal momento, ripeto, che non esiste al mondo l'unica cosa che avrebbe potuto esserle anteposta.
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