dovevamo esibirci al Tower ma di me nessuna traccia. così mi vennero a cercare in albergo. l'albergatrice disse a Mario che non mi ero fatto vedere, che supponeva (non poteva proprio giurarlo in quanto si era dovuta assentare in un paio di occasioni per delle commissioni) che per tutto il tempo non avessi messo il naso fuori dalla mia camera.
proprio così. da 4 ore agonizzavo nel letto, la siringa conficcata nella spalliera, appena rosata.
Mario, che da ex tossicodipendente era assolutamente intollerante con chi tossicodipendente lo era ancora, mi notificò che era proprio finita. per quanto lo riguardava potevo benissimo fare a meno di sopravvivere, che la band avrebbe tirato avanti ugualmente, con me o senza di me, che non si sarebbe dato la pena di tirarmi fuori dai guai e che - insomma - andassi pure in malora.
ma l'albergatrice, intuita la dinamica della faccenda, andò in escandescenze. temeva che il buon nome della pensione ne venisse intaccato, ma soprattutto di non riuscire a incassare la cifra della pigione relativa alla stanza numero 6, la mia.
la situazione era critica. l'albergatrice aveva chiamato la polizia e adesso si facevano indagini sul mio conto. diedi il nome di mio fratello, che fu rintracciato.
arrivò il giorno dopo. pagò il dovuto, sbrigò le formalità di rito, dimostrò una determinazione paziente che contrastava con il suo carattere irrequieto e burbanzoso, mi accarezzò con lo sguardo e non ebbe nei miei riguardi che parole neutre, inoffensive, comuni.
ma rientrando, in macchina, guidando e fumando il suo toscano extra-vecchio, mi notificò la decisione che da tempo aveva maturato dentro di sè, privatamente, senza confidarsi con nessuno, fosse sua moglie o nostra madre: non poteva accettare questa situazione neppure per un minuto ancora.
mi avrebbe accompagnato a casa, avrebbe atteso non oltre il tempo necessario a che riordinassi un po' le mie cose e poi, senza dilazioni ulteriori, mi avrebbe condotto alla clinica.
fu irremovibile.
solo, proprio al momento di lasciarci, nell'atrio odoroso di plexiglass, di cicche spente, di farmaci scaduti, mentre l'addetta alle accettazioni ci attendeva, ferma e istituzionale, di là dal vetro cerchiato, sfoggiando un mezzo sorriso che poteva significare tutta una gamma di cose: indifferenza o abitudine, umanità o disincanto - proprio quando l'inevitabilità del mio destino più prossimo paralizzava le cose, i gesti, i rapporti e le istanze, proprio allora, all'ultimo, tentai l'ultima carta, l'Ultimo Azzardo.
così domandai:
"devo proprio?"
"sì"
"lo credi davvero?"
"devi"
"è necessario?"
"lo è"
"credi che sia la scelta migliore?"
"sì. per te, per me e per la mamma."
"e chi altro?"
"nessuno. questi"
"e se non ne uscissi vivo?"
"ne uscirai"
e mio fratello mi assicurò che ne sarei uscito vivo oltrechè risanato. e ci furono altre parole tra noi. e lui non si spostò di un millimetro e il mio destino non subì alterazioni e io soffrii ancora molti giorni, ci furono fughe e ricadute, isterismi, pianti, sprazzi di cielo e tramonti sereni e iterati.
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distruggiti con moderazione vecchio paper (Fet)