È soltanto un Pokémon con le armi o è un qualcosa di più? Vieni a parlarne su Award & Oscar!
a Londra non fui sobrio, mai. e durante peregrinazioni sessuali e sollecitazioni alcoliche, attraversai la nera disperazione meditando sul vizio abissale!
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chiara partenza

Ultimo Aggiornamento: 28/12/2008 11:11
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01/11/2008 22:15
 
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Molto bello! Mi piace.

[SM=g7372]
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01/11/2008 22:23
 
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Scrive in modo divino,lo vorresti leggere tutto d'un fiato [SM=g8043] speriamo riscriva presto il seguito
01/11/2008 22:30
 
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Re:
(F@bry), 01/11/2008 22.23:

Scrive in modo divino,lo vorresti leggere tutto d'un fiato [SM=g8043] speriamo riscriva presto il seguito




Guarda Fabry, te lo dico senza tema di rivelare un segreto: G.M. (nick Paper) era un grande scrittore (non certo un grande cantante, come qualcuno - secondo me per prenderlo in giro - ha affermato), uno a cui 2 personaggi culturalmente ragguardevoli avevano predetto un futuro stellare. E aveva anche cominciato benino. Poi penso avrete intuito che cosa è successo, che cosa ha buttato via. Ma il talento ce l'ha tuttora. Io l'ho sempre saputo. Lui vi vuole molto bene, siete gli unici amici a cui continui a scrivere. Penso proprio che ci ripagherà tutti quanti!
[SM=g9438]

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01/11/2008 23:51
 
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me lo auguro paola,perchè un talento simile non può e non deve rimanere celato
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02/11/2008 01:49
 
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domani (oggi) mi prendo tutto il tempo per una attenta lettura.
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"é melhor ser alegre que ser triste / alegria é a melhor coisa que existe..." (samba da bençao)
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04/11/2008 11:16
 
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--------------------------------------------------------------------------------

Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutisi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficiale.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava le morbide soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei fusti.

...

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.
la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.

...





ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti incisi nella memorie delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



ravvedutosi è singolare, credo

come credo non sia corretto esteriore usato così. sottintendi aspetto, immagino, ma non suona bene. espliciterei la frase o userei un aparola diversa

ufficiale e mie sono semplici errori di battitira

non usare le virgolette. te l'ho già detto, te lo ridico. insisto. sono infantili

la frase in corsivo mi sembra che potrebbe essere resa più fluida...

fitta, non so, è necessaria una parola così particolare?


in generale, preferisco il finale, dove le emozioni alleggeriscono la tua scrittura

[Modificato da francesca.38 04/11/2008 11:22]
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Fra, son tutti errori di distrazione e ve ne son altri.
Niente di grave.
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04/11/2008 13:09
 
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chiara partenza (romanzo in 10 improvvisazioni)


Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. all'altro capo del tavolo Al mi apparve indifeso e bambino, i capelli svigoriti e scuriti, il viso smunto. rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza aveva raggiunto profondità degne di nota.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si sentì assolutamente compreso da lui quando gli raccontò della pena indicibile che aveva letto negli occhi di suo padre nel momento in cui costui si era finalmente rassegnato alla inesorabilità del percorso senimentale del figlio.

il suo compagno di ventura, che detto di passata aveva scoperto la sua omosessualità dopo un matrimonio, un figlio e svariate amanti,
ebbe a dirgli che capiva suo padre e che se si fosse trovato al posto suo l'avrebbe tranquillamente ammazzato. ma nonostante la patente insensatezza di tali parole, Al ne aveva saputo cogliere il lato consolatorio: inesistente ma agognato.

ma il suo tipo era senz'altro un tipo scolpito nella roccia o, se si vuole, un losco figuro.
perchè, quando quelle truffe da commedia all'italiana (amavano spacciarsi per sovraintendenti ai beni culturali e bazzicare le segreterie degli atenei, le quali nel farsi buggerare dimostravano ogni volta una spiccatisssima mancanza del senso del ridicolo) furono smascherate nonostante la mediocrità di un tabaccoso e dialettale ispettore di polizia della provincia ferrarese e l'imputazione di truffa aggravata e reiterata fu formalizzata - il tipo pensò bene di addossare sul compagno ogni responsabilità, certo che questi, nel segno della sua devozione, se ne sarebbe fatto carico in modo assoluto nonchè amorevole.
il che accadde puntualmente.
[Modificato da paper. 17/11/2008 14:48]
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come avrete notato, miei attenti, cari e impagabili lettori, ho aggiunto un sottotitolo alla mia composizione. in realtà avevo previsto di aggiungerlo alla fine, oltre ad altre cosette che seguiranno certamente, come le dediche, la colonna sonora ed altro ancora.
anticipo un po' le cose per ribadire una volta di più che questa composizione è appunto sostanzialmente un'improvvisazione in varie fasi (il 10 del titolo è solo figurativo, in realtà saranno un po' di più tali fasi)

scrivo sulla memoria. per come sono fatto mi è difficile inventare persino il colore di una veranda. ma di preparato non c'era nulla, e scrivendo sul forum non trascrivo: scrivo proprio e in presa ultra-diretta.

non è esibizionismo il mio, ma è una necessità legata al mio discorso narrativo.

grazie ancora
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Re:
paper., 04/11/2008 13.19:

come avrete notato, miei attenti, cari e impagabili lettori, ho aggiunto un sottotitolo alla mia composizione. in realtà avevo previsto di aggiungerlo alla fine, oltre ad altre cosette che seguiranno certamente, come le dediche, la colonna sonora ed altro ancora.
anticipo un po' le cose per ribadire una volta di più che questa composizione è appunto sostanzialmente un'improvvisazione in varie fasi (il 10 del titolo è solo figurativo, in realtà saranno un po' di più tali fasi)

scrivo sulla memoria. per come sono fatto mi è difficile inventare persino il colore di una veranda. ma di preparato non c'era nulla, e scrivendo sul forum non trascrivo: scrivo proprio e in presa ultra-diretta.

non è esibizionismo il mio, ma è una necessità legata al mio discorso narrativo.

grazie ancora




ti amo!!!! [SM=g7372]
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che altro dire,scrivi divinamente ed è un piacere leggerti...aspetto il continuo...
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Re:
(F@bry), 17/11/2008 15.24:

che altro dire,scrivi divinamente ed è un piacere leggerti...aspetto il continuo...




e io continuo a ringraziarti.
in tempi abbastanza brevi conto di terminare queste 10 improvvisazioni, mettermi avanti con Ege e pubblicare Cat Power, romanzo d'amore.

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chiara partenza (romanzo in 10 improvvisazioni)

Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutosi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. all'altro capo del tavolo Al mi apparve indifeso e bambino, i capelli svigoriti e scuriti, il viso smunto. rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza aveva raggiunto profondità degne di nota.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si sentì assolutamente compreso da lui quando gli raccontò della pena indicibile che aveva letto negli occhi di suo padre nel momento in cui costui si era finalmente rassegnato alla inesorabilità del percorso senimentale del figlio.

il suo compagno di ventura, che detto di passata aveva scoperto la sua omosessualità dopo un matrimonio, un figlio e svariate amanti,
ebbe a dirgli che capiva suo padre e che se si fosse trovato al posto suo l'avrebbe tranquillamente ammazzato. ma nonostante la patente insensatezza di tali parole, Al ne aveva saputo cogliere il lato consolatorio: inesistente ma agognato.

ma il suo tipo era senz'altro un tipo scolpito nella roccia o, se si vuole, un losco figuro.
perchè, quando quelle truffe da commedia all'italiana (amavano spacciarsi per sovraintendenti ai beni culturali e bazzicare le segreterie degli atenei, le quali nel farsi buggerare dimostravano ogni volta una spiccatisssima mancanza del senso del ridicolo) furono smascherate nonostante la mediocrità di un tabaccoso e dialettale ispettore di polizia della provincia ferrarese e l'imputazione di truffa aggravata e reiterata fu formalizzata - il tipo pensò bene di addossare sul compagno ogni responsabilità, certo che questi, nel segno della sua devozione, se ne sarebbe fatto carico in modo assoluto nonchè amorevole.
il che accadde puntualmente.

fece pure qualche giorno di galera. ma ciò che lo deprimeva non era tanto il suo stato presente, la cattività, il disagio - quanto la spiccata sensazione di un uscirne, l'insensatezza della burocrazia, i dialoghi per codicilli, le scappatoie cavillose e cieche.

i suoi genitori l'avevano ripudiato. nessun sostegno, nessuna mano amica.
eppure rimpiangeva quel sodalizio. sapeva che il suo compagno aveva spudoratamente abusato della sua devozione, ma non gliene voleva. costui adesso portava avanti i suoi giorni privi di luce in quel di Genova, gestendo un'agenzia semi-clandestina per uomini soli interessati all'arte secolare e iconfessata della sodomìa.
una volta Alberto era stato da lui ed era stata una visita fallimentare. un cane lupo dal pelo lunghissimo, trasandato e feroce, l'aveva assalito di fronte a un container. qualche camion lo doveva avere sbarcato lì dove si trovava, a giudicare dall'intrico delle sterpaglie che ne intaccavano i fianchi, da tempo immerorabile. alle porte di Genova, ma ancora in aperta campagna. non era arrivato al porto, non c'era mai arrivato. era un triste container dipinto di azzurro e per chissà quali insondabili motivazioni, colpi del destino, scherzi della sorte, furbizie che non erano furbizie e umana desolazione e impassibilità del Gran Dio - si era trasmormato (metamorfosi triste!) in un bordello.
e il suo tipo lo accolse con circospezione immeritata, era provato più che guardingo, era spalleggiato da un'enorme montagna di muscoli neri e da un minuscolo donnino dai lineamenti asiatici che lui ebbe la graziosità di presentarli come suoi "valenti collaboratori", la stanza era piena di sudore e fumo, non si vedevano che una sfilza di lettini da campo e nssuna sedia o tavola o qualsiasi altra cosa e Alberto pensò che non sarebbe dovuto venire, che era stato un errore cercare di recuperare il passato, e che - più in generale - le esperienze e gli affetti erano fuggitivi non meno dei giorni, dei mesi, degli anni.

forse non poteva dire di amarlo tuttora. forse di era trattato soltanto di un bellissimo inganno. ma il disagio che lo prendeva dentro, questa insoddisfazione profonda, lo confondeva a tal punto da non sapere più, letteralmente, come fare a tirare avanti, quale pensiero afferrare, una spiegazione plausibile, un'unica ragione, anche minimale, per affidarsi alla sequenza dei giorni, per maturare dentro e serbare l'irrazionale attesa per il nuovo tempo a venire, come quando, adolescente, fumando le prime sigarette sotto il flebile fanale del porticato sotto casa, ascoltanto la dissolvenza dei motori, i capricci dei bimbi riluttanti a prendere sonno, le voci e i litigi dei loro genitori - sapeve leggerne il meraviglioso minimalismo, rivelarne i cesellato tassello delle cose che si dicono comuni, perchè le cose comuni sono le cose essenziali e alla notte subentra il giorno, la vita offre dei bilanci e le gioie superano di gran lunga le sofferenze.



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ma sai che mi piace moltissimo ?
Veramente ottimo !
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ti ringrazio, Nightline, umilmente grazie
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chiara partenza (romanzo in 10 improvvisazioni)

Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori, ravvedutisi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno ufficile.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.

Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava tentare la sorte con le soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei "fusti".

"respingo la mia alterità" ebbe a dirmi.
"è tutto troppo complicato" spiegando.

cominciò la discesa. cercava le donne, ma la sua bellezza non era sufficiente. la percezione di un piano diverso inibiva ogni sbocco concreto: non rimediò che disastri. l'intoppo poteva manifestarsi all'inizio, oppure dopo una breve frequentazione, oppure dopo una sottospecie di storia. ma l'esito era quello, ogni volta. il fatto è che lui non se ne rammaricava abbastanza, e la volta dopo la sua tattica distaccata e svogliata, non mutando, portava al medesimo vacuo risultato.

i suoi genitori lo pressavano.

non trovava un lavoro, non cercandolo.

mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi. mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.

la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
quando sentenziava quel suo:
"tu non stai bene", detto con un misto di rabbia acidula e supponenza stentorea, diventavo furibondo, bestemmiando a più non posso e passando dalla sigaretta al whishy e viceversa con deleteria disinvoltura.

così Alberto mi chiedeva di partire. il succo era quello, per quanto il costrutto del suo discorso non fosse altro se non una sequenza di annotazioni smozzicate che andavano da una chiosa libraria o discografica ad una meteorologica oppure filosofica oppure minimale e infine accentrando la sua attenzione sull'interpretazione degli alti lai che mia madre, avendo percepito la presenza di un ospite, aveva raddoppiato di intensità.
"voglio bene a tua madre" disse Al.
"dici?"
"andiamo da lei"
"neanche per idea" ribattei io. se ci andiamo è finita e ti dovrei congedare. calciai la porta della stanza, che si accostò, e accostandosi le invocazioni di mia madre si fecero di ovatta.

Al avevo preso a blandirmi:
"tu sai sempre prima le cose"
"non si pùò tentare di resistere a dispetto dei santi" spiegò
"mhm " feci "non ricordo di avere mai detto una simile stronzata"
"ossia?"
"senti Al, e scusami se mi permetto di chiamarti sbrigativamente così, ma credo ti sarai reso conto che la mia situazione è, per così dire, ancorata. se ti sei immaginato che potessi partire con te, se credevi, o ti hanno riferito, che il senso della mia vita non sia che un perenne rimorchiamento lungo percorsi stellati, bevendo, scarpinando, vivendo negli angoli, cantando alla luna o pisciando come i cani - bè, non è così, non è mai stato così, e chi ti ha convinto di questo è mio nemico. malevolo, invidioso e testa di cazzo."

Al mica si arrendeva.

voleva partire. si era convinto che potessi aiutarlo e non mollava la presa.
gli avevo dato da bere. beveva malissimo. non aveva mai bevuto. cazzo non sapeva bere.
l'alcol lo rendeva loquace. diceva di amarmi. che ero un bel fusto. straparlava. e mia madre piangeva, desolata. la sentivo al di là della porta.

"senti, ti porto in un posto" gli dissi.
preda di un indecifrabile cambio di umore, indecifrabile perchè inatteso oltre che di totale compiutezza spirituale - avevo deciso di occuparmi di lui, e tanto per cominciare gli proponevo un pranzetto. pensavo a un ristorantino sotto il portico delle Sette Chiese, un posto vezzoso e un po' snob a cui mi legava la memoria esaltante della cena di presentazione del mio libro, e quella sera avevo interpretato qualche pezzo dei Kyuss, le prospettive erano tutte a favore, i problemi parevano svaniti nel nulla e la vita era una cosa meravigliosa.

ecco. la visita di Alberto era stata capace di smuovere dentro di me ricordi doci sereni sopiti...così, come d'incanto, del tutto imprevedibilmente. c'era stato l'imbarazzo, quasi il fastidio causatomi dalla sua visita inaspettata e, stante le mie difficoltà del presente, indesiderata - e però dopo, a un certo punto inespresso e non enucleabile, il cavallino indomito della ribellione del non-astio aveva ripreso a scalpitare solleticando a mezzo dei suoi zoccoli minuziosi il tessuto non deteriorabile della mia determinazione ad aggredire la vita.

tutto ciò a distanza di tempo. tutto ciò compreso in seguito, riflettendoci.

se quella semplice banale idea di un pranzetto domenicale in compagnia di un giovane ragazzo gay circospetto e tendenzialmente bugiardo fu, a parte il banale, un'idea importante - lo fu perchè segnò una volontà riafforante dal profondo della mia anima assopita e fuggitiva da un numero incalcolabile di giorni.

ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti inseriti nella catalogazione delle mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.



il tepore infuso di materia solare del giovane giorno dicembrino e domenicale lo trasportava fuori dal contesto delle stagioni. non era dicembre, non era inverno- e se parlava il linguaggio languido della primavera incedente sapevi, riconoscevi la menzogna sottesa.
sono questi i momenti migliori, mi dicevo. camminavo con allegria, sentendo Alberto al mio fianco, fidente e sgusciante. aveva riso di gusto assistendo alla pantomima della nostra uscita: mia madre non doveva sapere, avrebbe fatto il diavolo a quattro pur di non restare da sola, e per mascherare le cose avevo simulato il congedo dell’ospite, salutandolo ad alta voce e sbattendo la porta di casa. poi avevo inserito un CD nel lettore utilizzando la funzione repeat. finchè il disco sarebbe andato mia madre avrebbe creduto che tutto fosse come sempre: io al mio tavolo a scrivere, a bere e a fumare, la musica in sottofondo, la tivù accesa e senz’audio.

arrivammo fino al centro, facendo susseguire a un portico un altro portico, parlando di soldi, di prospettive lavorative, di salute e di altre sciocchezze.
sapevamo entrambi che la motivazione sottesa per la quale ci ritrovavamo insieme, a camminare uniti e a predisporre il nostro rispettivo apparato digerente alla ricezione di tante squisitezze quante ce ne avrebbero offerte la carta del menu e l'analisi che di essa ne avrebbe fatto il nostro capriccio - questa motivazione nascosta ma sottintesa non era altro che un affare di cuore. non poteva essere che così. Alberto mi chiedeva di partire, ma Alberto non sarebbe mai partito senza una motivazione profonda. lui viveva il suo dramma sessuale, i suoi tormenti era da lì che prendevano spunto. non riuscendo a sbrogliare l'intrico delle contraddizioni della sua anima, Al cercava - istinto naturale e risolutivo - di tagliar conto proponedomi di prendermi cura di lui. mi sapeva leggero e altruista, privo di condizionamenti e di affetti, filosofo e beone.

la veranda gialla allestita a fianco del colonnato cominciò a occhieggiarci a distanza. un pachistano spazzava il lastricato del portico, un alcolizzato cantava a cavalcioni di un muretto.
il maitre inguantato di nero ci ricevette con indifferente seriosità, scortandoci a un tavolo d'angolo.
ordinammo un paio di bottiglie di Orvieto, ci facemmo portare del formaggio di fossa e del pan caciato e annunciammo che ci saremmo volentieri tuffati dentro un paio di generose terrine ricolme di friccò.

avevamo finito l'Orvieto, e il cameriere ci cambiò i bicchieri e ci versò 4 dita di rosso fermo. divino. denso, nettareo, distillato e preciso. tirai a me la bottiglia. all'altro capo del tavolo Al mi apparve indifeso e bambino, i capelli svigoriti e scuriti, il viso smunto. rideva e si sfregava le mani. aveva gli occhi piccoli e dardeggianti e indubbiamente il suo stadio di ubriachezza aveva raggiunto profondità degne di nota.

mi raccontava. e mentre lo faceva udivo i suoni della piazza, vedevo la luce del ciottolato e quella del sagrato, sullo sfondo la cattedrale rossastra circonfusa di chiarità, le grida dei bimbi, lo svolazzo dei piccioni.

mi disse delle sue peregrinazioni con il suo tipo. delle truffe giocondamente inflitte. della volta che si sentì assolutamente compreso da lui quando gli raccontò della pena indicibile che aveva letto negli occhi di suo padre nel momento in cui costui si era finalmente rassegnato alla inesorabilità del percorso senimentale del figlio.

il suo compagno di ventura, che detto di passata aveva scoperto la sua omosessualità dopo un matrimonio, un figlio e svariate amanti,
ebbe a dirgli che capiva suo padre e che se si fosse trovato al posto suo l'avrebbe tranquillamente ammazzato. ma nonostante la patente insensatezza di tali parole, Al ne aveva saputo cogliere il lato consolatorio: inesistente ma agognato.

ma il suo tipo era senz'altro un tipo scolpito nella roccia o, se si vuole, un losco figuro.
perchè, quando quelle truffe da commedia all'italiana (amavano spacciarsi per sovraintendenti ai beni culturali e bazzicare le segreterie degli atenei, le quali nel farsi buggerare dimostravano ogni volta una spiccatisssima mancanza del senso del ridicolo) furono smascherate nonostante la mediocrità di un tabaccoso e dialettale ispettore di polizia della provincia ferrarese e l'imputazione di truffa aggravata e reiterata fu formalizzata - il tipo pensò bene di addossare sul compagno ogni responsabilità, certo che questi, nel segno della sua devozione, se ne sarebbe fatto carico in modo assoluto nonchè amorevole.
il che accadde puntualmente.

fece pure qualche giorno di galera. ma ciò che lo deprimeva non era tanto il suo stato presente, la cattività, il disagio - quanto la spiccata sensazione di un uscirne, l'insensatezza della burocrazia, i dialoghi per codicilli, le scappatoie cavillose e cieche.

i suoi genitori l'avevano ripudiato. nessun sostegno, nessuna mano amica.
eppure rimpiangeva quel sodalizio. sapeva che il suo compagno aveva spudoratamente abusato della sua devozione, ma non gliene voleva. costui adesso portava avanti i suoi giorni privi di luce in quel di Genova, gestendo un'agenzia semi-clandestina per uomini soli interessati all'arte secolare e iconfessata della sodomìa.
una volta Alberto era stato da lui ed era stata una visita fallimentare. un cane lupo dal pelo lunghissimo, trasandato e feroce, l'aveva assalito di fronte a un container. qualche camion lo doveva avere sbarcato lì dove si trovava, a giudicare dall'intrico delle sterpaglie che ne intaccavano i fianchi, da tempo immerorabile. alle porte di Genova, ma ancora in aperta campagna. non era arrivato al porto, non c'era mai arrivato. era un triste container dipinto di azzurro e per chissà quali insondabili motivazioni, colpi del destino, scherzi della sorte, furbizie che non erano furbizie e umana desolazione e impassibilità del Gran Dio - si era trasmormato (metamorfosi triste!) in un bordello.
e il suo tipo lo accolse con circospezione immeritata, era provato più che guardingo, era spalleggiato da un'enorme montagna di muscoli neri e da un minuscolo donnino dai lineamenti asiatici che lui ebbe la graziosità di presentarli come suoi "valenti collaboratori", la stanza era piena di sudore e fumo, non si vedevano che una sfilza di lettini da campo e nssuna sedia o tavola o qualsiasi altra cosa e Alberto pensò che non sarebbe dovuto venire, che era stato un errore cercare di recuperare il passato, e che - più in generale - le esperienze e gli affetti erano fuggitivi non meno dei giorni, dei mesi, degli anni.

forse non poteva dire di amarlo tuttora. forse di era trattato soltanto di un bellissimo inganno. ma il disagio che lo prendeva dentro, questa insoddisfazione profonda, lo confondeva a tal punto da non sapere più, letteralmente, come fare a tirare avanti, quale pensiero afferrare, una spiegazione plausibile, un'unica ragione, anche minimale, per affidarsi alla sequenza dei giorni, per maturare dentro e serbare l'irrazionale attesa per il nuovo tempo a venire, come quando, adolescente, fumando le prime sigarette sotto il flebile fanale del porticato sotto casa, ascoltanto la dissolvenza dei motori, i capricci dei bimbi riluttanti a prendere sonno, le voci e i litigi dei loro genitori - sapeve leggerne il meraviglioso minimalismo, rivelarne i cesellato tassello delle cose che si dicono comuni, perchè le cose comuni sono le cose essenziali e alla notte subentra il giorno, la vita offre dei bilanci e le gioie superano di gran lunga le sofferenze.

ma adesso il sole non scaldava più così tanto. il pomeriggio aveva offerto il tepore, le famigliole avevano approfittato di questo tepore, ed erano rincasate.
pagai il conto e ci incamminammo verso un destino nient'affatto borghese.
[Modificato da paper. 28/12/2008 11:11]
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21/12/2008 20:20
 
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te lo ridico: ravvedutosi è sbagliato, perchè singolare. essendo riferito a genitori, si deve scrivere ravvedutisi

ci sono un paio di errori di battitura.

si legge volentieri, intriga ed è scorrevole.

mi piace molto
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21/12/2008 21:32
 
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Re:
francesca.38, 21/12/2008 20.20:

te lo ridico: ravvedutosi è sbagliato, perchè singolare. essendo riferito a genitori, si deve scrivere ravvedutisi

ci sono un paio di errori di battitura.

si legge volentieri, intriga ed è scorrevole.

mi piace molto





thanks!!
vado a correggere (ma può correggere anche Mimmi o Chiara o anche tu stessa qualora ambissi a un ruolo "dirigenziale", infatti in questo caso avresti l'opzione tecnica per inserirti) però la rifinitura è ancora di là da venire

bacissimi!
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