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Al era nato proprio così, con questo nome anagrafico: Al. ma i genitori,
ravvedutisi nemmeno una settimana dopo la nascita del pargolo, avevano stabilito con marionettistica formalità che nessuno avrebbe dovuto permettersi di servirsene. e così, si può dire da subito, il meno esotico ma più rassicurante appellativo di Alberto assurse a nome, se non legale, quanto meno
ufficiale.
Alberto si rivelò un ragazzo timido, ma i suoi impacci furono ampiamente compensati dal suo
esteriore femmineo e succulento. le donne, specie se non giovanissime, andavano pazze per lui. quando prese a curarsi l'aspetto, divenne semplicemente irresistible: la pelle diafana femminea, i capelli biondissimi, lucenti e a boccoli, la statura da granatiere ma mitigata da una corporatura tutto sommato esile, i modi distinti, la parlata secca, sintetica, corretta e morbida nella voce.
Alberto amava anche gli uomini. la scoperta della sua bisessualità fu come un fulmine a ciel sereno per lui, per i genitori, per noi tutti. lui non ne fece mistero. però, ben presto, si incupì. lo preoccupava la mutazione cui i suoi appetiti sessuali parevano andare soggetti: sempre di meno desiderava le morbide soft machine, sempre più sbavava per il ruvido atletismo dei
fusti.
...
mi chiese di partire. voleva partire. conosceva il mio modus vivendi. sapeva che ero un senza patria. venne da me un pomeriggio domenicale. ossevava i miei libri, i dischi. non parlava.
già era un mistero come fosse riuscito a scovarmi.
mi ero fatto coinvolgere in una brutta storia di gelosie e reciproci rancori, rotto un polso, perdutamente innamorato di una donna che mi aveva trattato malissimo, mia madre si era rotta un piede. alla fine avevo deciso di restarle vicino e, sobbarcandomi della pesante immobilità del suo corpo debordante, mi trasferii al piano terreno della casa di campagna di Omar, che altri non era se non il mio munifico agente letterario, oltre che amico e socio in affari del mio fratellone, editore e affarista. senza dire niente a nessuno, senza preavvisare nessuno.
la domenica che piombò da me la mia disposizione d'animo era eufemisticamente provata. mia madre non stava bene, non camminando aveva mille richieste. dal fondo della casa invocava il mio nome per ogni nonnulla, sciorinava i suoi decennali mali imaginari, parlava direttamente con Dio. sul suo comodino le scatole delle medicine che si faceva ordinare con disarmante determinazione si accatastavano, la padella delle urine emanava cattivo odore, e per soprammercato si era
fitta in testa che neppure io stessi bene. mi vedeva gonfio, prossimo all'implosione.
...
ecco perchè il ricordo di quel pranzo si è sovrascritto a quello della cena della presentazione di Tago Mago. ecco perchè, seppure di natura sostanzialmente diversa, se non opposta, sono entrambi momenti incisi nella memorie delle
mie cose, quelle che sono rimaste e che non ho fatto nessuna fatica a serbare.
ravvedutosi è singolare, credo
come credo non sia corretto esteriore usato così. sottintendi aspetto, immagino, ma non suona bene. espliciterei la frase o userei un aparola diversa
ufficiale e mie sono semplici errori di battitira
non usare le virgolette. te l'ho già detto, te lo ridico. insisto. sono infantili
la frase in corsivo mi sembra che potrebbe essere resa più fluida...
fitta, non so, è necessaria una parola così particolare?
in generale, preferisco il finale, dove le emozioni alleggeriscono la tua scrittura
[Modificato da francesca.38 04/11/2008 11:22]